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IL Monviso è la cima più alta delle Alpi Cozie
(3.841m), la sua storia inizia nel Giurassico,
circa 175 milioni di anni fa, sul fondo di un
oceano che separava la placca euroasiatica da
quella africana, mentre i dinosauri
passeggiavano sulle sue spiagge.
Se
osservassimo un profilo dei fondali oceanici a
partire da una dorsale troveremmo una sequenza
di rocce di origine vulcanica dette ofioliti
(dal greco ophios serpente
e lithos pietra:
pietra dai toni verdi simile alla pelle del
serpente): dal basso le Peridotiti, rocce
ultrabasiche del mantello, poi i gabbri, rocce
intrusive che nascono per cristallizzazione di
magmi basici, e in posizione superiore i
basalti, spesso a conformazione a bolla o “pillow”,
a causa della veloce solidificazione del magma a
contatto con l’acqua dell’oceano.
Circa 80 milioni di anni fa inizia la collisione
tra il vecchio margine continentale europeo ed
una porzione della vecchia costa africana: in
questo immane scontro, iniziato nel Cretaceo
superiore scomparve l’antico tratto oceanico che
divideva i due continenti. Le forze messe in
campo furono enormi tanto da portare la
litosfera oceanica dapprima in profondità a
temperature e pressioni elevatissime (circa
500-600° e circa 12-20 Kbar corrispondente a
profondità di circa 40-70 km) per poi a farla
riemergere e portarla a quote elevate in cima a
tutto, trasformata ma contenente ancora la
testimonianza della sequenza originaria. Così si
è formato il Monviso.
La geodiversità del Monviso e del circostante
massiccio del Dora Maira, testimonianza
dell’antico margine continentale adagiato ai
suoi piedi, comprende la presenza di minerali
unici al mondo, formatisi in condizioni estreme
di temperatura e pressione, come il Piropo, un
raro granato di colore rosa che forma cristalli
di grandi dimensioni, o come la splendida
Giadeite, costituita da minerali di giadeite e
onfacite, estratta fin dal Neolitico in Valle Po
ed esportate in tutta Europa per costruire
manufatti.
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Secondo quanto
emerso dalle ricerche storico-scientifica svolte
negli ultimi 15 anni,
circa
7000 anni fa, nell’appartato vallone di Oncino,
ad est del Monviso, veniva estratto e lavorato
un raro minerale simile alla più nota giada
cinese. A render suggestivo il ritrovamento è
stata anche la scoperta che i manufatti in
“giadeite” hanno poi viaggiato per migliaia di
chilometri fino a raggiungere, come punti
estremi, l’Irlanda, la Normandia, Danimarca e
Bulgaria.
Questa particolare pietra proveniente dalla zona
di Oncino in valle Po e lavorata per creare asce
rituali, ha percorso le vie commerciali del
nostro continente poiché era ricercata come
simbolo di potere e trascendenza.
«Per
tre millenni, nel mondo neolitico, il Monviso ha
svolto un ruolo assai importante. Oggi il
massiccio e le aree che lo circondano
costituiscono un luogo di grande interesse per
la ricerca archeologica europea…»
ha scritto a proposito di questa vicenda il
giornalista e storico Roberto Mantovani.
La scoperta
iniziale è da attribuirsi ai geologi
dell’Università di Torino – Franco Rolfo e
Roberto Compagnoni – che fin dal 2003
localizzano sulla Punta Rasciassa, a circa 2.400
m di quota, il primo giacimento primario (cioè
in sede non fluviale) di giadeite delle Alpi.
Dopo anni di studi – pressoché in simultanea con
i colleghi italiani – anche l’archeologo
francese Pierre Petrequin giunge allo stesso
risultato e localizza anch’egli i primi blocchi
massivi nel Vallone del Lenta, a monte di Oncino. |
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Il massiccio del Dora Maira ha fornito inoltre ottimo
gneiss, oggi conosciuto come Pietra di Luserna,
quarziti, oggi conosciuta come Bargiolina, e calcescisti
utilizzati da sempre per la costruzione delle abitazioni
in Valle e oggi oggetto di attive e prosperose cavazioni
sul Monte Bracco. |
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E' proprio la giadeite estratta 7800 anni fa dai
giacimenti del Monviso a essere utilizzata per le asce
più preziose che saranno poi ritrovate nelle torbiere
dell’Inghilterra, all’interno dei monumenti megalitici
della Normandia e in altri siti dei Paesi Bassi e del
resto d’Europa.
Secondo le ricerche effettuate la giada subiva
un’iniziale lavorazione sul luogo di estrazione, i
durissimi blocchi venivano frantumati attraverso
procedimenti di shock termico (fuoco e neve), i
frammenti ottenuti venivano poi scheggiati fino a
ottenere un abbozzo della forma desiderata. Gli scarti
erano elevati, migliaia di schegge di lavorazione, e
resti dei focolari sono stati reperiti in Valle Po con
datazioni estese tra il 5200 e il 4700 a.C.. Valicate le
Alpi i pezzi “grezzi” venivano sottoposti a progressive
e ripetute lavorazioni lungo il cammino, in Svizzera e
Francia, aumentando progressivamente il grado di
finitura. Un cammino durato millenni: giunsero a Carnac
Saint-Michel in Bretagna verso il 4500 a.C., e in
Somerset, Gran Bretagna, nel 3800 a.C.
Le particolari qualità di durezza, lucentezza e colore
della gjadeite erano così apprezzate da escluderla
dall’uso quotidiano; le accette litiche ritrovate non
riportano segni di usura o di utilizzo alcuno, sono anzi
rifinite con estrema cura e lucidate a specchio. L’atto
stesso della raccolta in un luogo in quota, impervio e
difficilmente accessibile, era parte del valore
magico-rituale attribuito a questi antichi
oggetti-simbolo. |
I
luoghi di ritrovamento sono spesso altrettanto
singolari: venivano seppellite a coppie, con il
lato tagliente verso l’alto, al di fuori dei
contesti consueti, in prossimità di rocce
prominenti, o all’ingresso di caverne, o in riva
a un fiume, in torbiere e luoghi paludosi.
L’insieme di rituali che coinvolgeva queste
“asce cerimoniali”, dal momento dell’estrazione
fino alla sepoltura finale, fa supporre che
fossero considerate una sorta di oggetto sacro,
forse un simbolo di potere o religioso,
tramandato di generazione in generazione per un
periodo di oltre un millennio.
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Nell’ambito
del progetto JADE,
l’archeologo francese Pierre Petrequin applica
un metodo spettrografico che consente di
identificare con estrema precisione il “profilo”
esclusivo di ogni reperto, e individua così la
correlazione tra i campioni minerali raccolti
nel 2003 in valle Po, e centinaia di accette litiche, strumenti ampiamente diffusi in età
neolitica e oggi conservati nei musei di tutta
Europa .
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Il Museo del Piropo di
Martiniana Po è stato pensato per portare il grande pubblico a
conoscenza di una caratteristica unica e preziosa della Valle Po. Il
piropo, parente dei granati, è un cristallo rarissimo, presente in pochi
siti noti al mondo, uno di questi è Martiniana Po.
Il museo del Piropo, realizzato con il contributo dell’Università degli
studi di Torino, assume un rilievo del tutto particolare per studiosi ed
appassionati di mineralogia e di geologia, provenienti da ogni dove.
La struttura è
posta in pieno centro, a poche decine di metri dal Municipio ed è
composta da tre sale, nelle quali dapprima si narrano le vicende
geologiche che hanno condotto alla formazione della Valle Po così come
la vediamo oggi, la seconda saletta è dedicata al tema dei cristalli e
della loro struttura, con l’aiuto di numerosi modellini per spiegare la
disposizione degli atomi nello spazio. L’ultima saletta è attrezzata per
proiezioni video: quanto esposto viene sintetizzato con alcuni
documentari, capaci di trasmettere le nozioni essenziali. Il Museo del
Piropo di Martiniana Po è aperto tutte le domeniche dalle 14.30 alle
18.30, ingresso gratuito.
http://www.parcomonviso.eu/ |
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